40 - LaRepubblica: Mauro lascia arriva Calabresi.

16 gennaio 2016






Una certa idea 
dell’Italia 
di Ezio Mauro
15 gennaio 2016

Nella velocità dei tempi che viviamo, quarant’anni sono il tempo di un cambiamento che supera lo scarto tra due generazioni.Sembrano infatti due Italie diverse quelle raccontate nel primo numero di questo giornale, il 14 gennaio del 1976, appena ripubblicato, e nel numero di oggi. Sono cresciute e sfiorite due Italie, una suicidata con Tangentopoli, l’altra svuotata dal ventennio berlusconiano. La terza sta faticosamente costruendo se stessa, su basi che trovano un consenso politico ristretto ma un’apatia civica diffusa. Sono morti partiti centenari, e con loro sono appassite culture politiche che in altre parti d’Europa formano l’ossatura storica del sistema. Il Paese ha conosciuto pace e sviluppo in un dopoguerra lunghissimo, ma ha patito le stragi di Stato, la corrosione della P2, l’assassinio mafioso di Falcone e Borsellino, l’attacco del terrorismo rosso indigeno, che è riuscito a sconfiggere. Poi la caduta del Muro, la fine del secolo delle ideologie, il presunto trionfo della democrazia come unica religione superstite insieme con la rivoluzione tecnologica di Internet che ci ha portato il mondo in tasca accorciando la storia e abbattendo la geografia: e invece lo squarcio epocale dell’11 settembre 2001, le guerre, l’attacco jihadista alle democrazie. Per arrivare infine a questa età dell’incertezza con le tre piaghe d’Occidente, la sfida mortale del terrorismo islamico, la più lunga crisi economico-finanziaria dal ’29, l’ondata della disperazione migratoria che punta sull’Europa come terra della speranza e del futuro, scatenando paure e insicurezze. Tutto sembra fuori controllo, i meccanismi democratici costruiti nel secondo Novecento per garantirci nel nostro vivere insieme deperiscono, mentre cresce una rabbia sterile contro le istituzioni, insieme con una silenziosa nuova solitudine repubblicana. Eppure la democrazia è testarda anche se consumata, e la coesione sociale tiene nonostante le disuguaglianze diventino esclusioni. Il Paese può farcela, e ce la farà. Repubblica ha informato i suoi lettori giorno dopo giorno, come vuole la missione di un giornale. Ma è stata anche un attore culturale e non soltanto uno spettatore della vicenda italiana. Il genio di Scalfari quarant’anni fa ha cambiato il giornalismo, ma soprattutto ha scommesso su un cambiamento del Paese che avesse le sue radici nella modernizzazione, nell’Europa, nella piena agibilità di un sistema politico bloccato. Il giornale ha creduto che la sinistra italiana potesse essere un soggetto importante per questa modernizzazione, sapendo che per farlo doveva compiere la sua storia uscendo dalla corazza comunista per incrociare la cultura politica liberal- democratica incentrata sulla giustizia e sulla libertà: un azionismo di massa è stato il sogno di Repubblica, e non importa se un sogno di minoranza, pur di testimoniare per quarant’anni “una certa idea dell’Italia”, secondo la formula di Piero Gobetti. Questa avventura ha selezionato due, tre generazioni di giornalisti di prim’ordine, che si sono liberamente scelti negli anni e si sono intestati molte sfide in comune, oltre ad uno sforzo continuo di innovazione, da “Repubblica delle idee” a D, alla Domenica, a R2, a Repubblica.it che è diventato il primo sito d’informazione d’Italia. Ma soprattutto ha selezionato una community di lettori che non ha uguali nel Paese, con un rapporto fortissimo con il quotidiano, a cui viene chiesto non solo di informare ma di prendere parte al discorso pubblico e alla battaglia culturale. Repubblica lo ha fatto: una battaglia laica (non a caso Scalfari è stato scelto da Papa Francesco come interlocutore nella sua “lettera a chi non crede”), riformista, europea, potremmo dire “repubblicana” nel senso francese del termine, con un sentimento di patriottismo costituzionale. Per queste ragioni, niente affatto ideologiche, ci siamo trovati a dover contrastare gli abusi di un potere legittimo quando cercava una dismisura illegittima nelle leggi ad personam, nel conflitto di interessi, nello strapotere mediatico che alterava il mercato del consenso, nello strapotere economico che consentiva di comperare parlamentari a grappoli. Siamo stati spesso soli, in Italia ma non nel concerto della migliore stampa internazionale: ne valeva comunque la pena. Abbiamo creduto in una società politica dell’alternanza, nella distinzione feconda e vitale tra i concetti di destra e sinistra e le loro proiezioni politiche. Con la speranza, che questo giornale ha sempre sollecitato, di vedere finalmente in campo una sinistra risolta, europea, moderna e occidentale (il ritardo è enorme e dunque colpevole) e una destra finalmente liberata da tentazioni cesariste, padronali, nostalgiche o xenofobe, che in Italia non c’è mai stata. Un’Italia in cui si confrontino una sinistra riformista, di governo, e un partito conservatore autenticamente liberale è il traguardo che indichiamo da decenni: oggi tanto più urgente, prima che arrivi l’onda alta del populismo antisistema che coltiva la rabbia e la disperazione senza mai riuscire a trasformarle in politica, scagliandole in una feroce gioia contro le istituzioni. Non abbiamo mai partecipato al qualunquismo del banchetto anti-casta, convinti che la società abbia in sé risorse potenti ma sia nello stesso tempo civile e incivile, come il mondo politico, a cui in democrazia spetta comunque distribuire le carte, perché è lo strumento che è stato inventato nello Stato moderno per disciplinare il contrasto tra gli interessi legittimi in campo, in nome dell’interesse generale: tocca evidentemente al cittadino- elettore valutare come questo compito viene svolto, ma appunto con un giudizio motivato, non con un pregiudizio che aiuta solo a fare di ogni erba un fascio, smarrendo il compito fondamentale di ogni giornale e della pubblica opinione, che è la capacità di distinguere. Abbiamo creduto nel mercato senza mai ritenerlo sciolto dalle regole della democrazia, nella convinzione che la libertà vada esercitata insieme con la responsabilità. Pensando che non la finanza ma il lavoro sia il nucleo del sistema occidentale che si forma attorno alla combinazione tra il capitalismo, il welfare state, la democrazia rappresentativa, una libera alleanza capace di dar forma ad una civiltà e di costruire quel che potremmo chiamare il tavolo di compensazione dei conflitti, che ha tenuto insieme nella crescita e nello sviluppo di questi decenni i vincenti e i perdenti della globalizzazione, in un vincolo appunto di responsabilità per il destino comune della società. Nel sostenere queste idee che nascono dalla sua identità, Repubblica si è trovata naturalmente (e nemmeno per sua scelta) a diventare un punto di riferimento nel dibattito del Paese, come capita anche ad altri giornali. La grande banalizzazione in cui viviamo – che è uno strumento del potere, perché frantuma ogni questione rilevante restituendola alla mediocrità quotidiana di cui non vale la pena occuparsi – ha ridotto tutto questo alla semplificazione del giornale- partito. Ma tutte le volte che hanno cercato in noi un partito hanno trovato il giornale, e nient’altro. Certo un giornale che ha visto, letto e contrastato il cambio di egemonia culturale che ha investito il Paese negli ultimi vent’anni, facendo ingrigire le ragioni culturali e storiche della legittimità repubblicana, nata da quel tanto di resistenza antifascista che c’è stata in Italia: sufficiente tuttavia a rendere la democrazia in buona parte riconquistata e non interamente octroyée dagli alleati, e dunque fonte autonoma e legittima della Costituzione e delle nostre istituzioni. La nuova egemonia culturale ha aperto naturalmente la strada alla destra politica, che l’ha fissata in ideologia per vent’anni, con il contributo fattivo e interessato di una Chiesa pre-francescana tentata dall’illusione – per fortuna breve – di un Dio italiano, pronto a prendere parte alla vicenda politica spicciola in cambio di tutele legislative a un’autorità morale che stava inesorabilmente declinando. Tutto questo ha reso l’avventura di Repubblica appassionata e appassionante. Devo ringraziare nella stessa misura, mentre lascio la direzione, una redazione che mi ha dato una fiducia e un’amicizia di cui sono orgoglioso, i lettori che ci hanno seguiti addirittura come soci d’opera, con un legame fortissimo alla loro testata e l’Editore, il Gruppo Espresso, che con il continuo sostegno ci ha lasciato sempre la libertà di esprimere il giornalismo in cui crediamo: se abbiamo fatto degli sbagli, li abbiamo fatti da soli. L’avventura continua sotto la guida di Mario Calabresi, giornalista di talento e di sicura onestà intellettuale, che è anche un amico per tutti noi e conosce Repubblica alla perfezione, avendo lavorato per anni in una redazione che appoggiandosi alla sua esperienza e al suo entusiasmo darà il suo meglio, come sempre. Vent’anni fa avevo scritto che dovevamo “cambiare, restando noi stessi”. Succederà ancora, nel modo migliore, e Repubblica continuerà ad essere un attore di quel cambiamento di cui ha bisogno più che mai il nostro Paese.

Il mondo 
che vogliamo raccontare 
di MARIO CALABRESI
 16 gennaio 2016

DUE giorni fa avete avuto la fortuna di tornaregiovani, di fare un salto indietro nel tempo prendendo in mano la prima copia di Repubblica. Io non l'avevo mai sfogliata perché, come tanti lettori, ero ancora troppo piccolo per frequentare le edicole, ma in quelle pagine ho trovato tutto quello di cui ha bisogno il giornalismo oggi: capacità di scegliere, una scrittura chiara e sintetica e un dialogo diretto con il lettore. È questa la lezione di Eugenio Scalfari per me più preziosa per rispondere alle sfide di un mondo estremamente complesso e difficile da spiegare. Viviamo in un continente in crisi profondissima: la rabbia, il disincanto, un fastidio quasi insanabile verso ogni cosa pubblica hanno preso il sopravvento, vediamo dilagare il populismo e se proviamo ad alzare lo sguardo fuori dai nostri confini assistiamo ai tormenti che lacerano società che ci parevano più solide come la Germania, la Francia o la Spagna. Non abbiamo ancora risolto la crisi economica, che è oggi mancanza di prospettive e di lavoro, ma nuove emergenze si sono già aggiunte a partire dalla sfida terroristica che ci siamo trovati in casa. La reazione più sconcertante è la "grande banalizzazione" in cui viviamo, per usare un termine coniato ieri nel suo editoriale di saluto da Ezio Mauro, quel fenomeno che semplifica tutto e spinge ognuno di noi, perfino le teste più accorte e preparate, a essere attratti dalle tesi più congeniali e comode anche se spesso risultano verosimili ma non vere. Il frutto avvelenato di un'epoca di divisioni, di cinismo e di impazienza è aver perso il gusto per le sfumature, aver smarrito la curiosità di scoprire somiglianze oltre che differenze. Un manicheismo dilagante si è impossessato del nostro mondo che sembra attratto fatalmente dall'idea che esistano solo bianco o nero. L'alternativa però non sono i molti toni di grigio bensì i colori. I mille colori che danno sapore alle nostre vite. Ognuno di noi deve recuperarli e tenerli di fronte agli occhi ogni giorno, antidoto al veleno dell'apatia e viatico per la speranza. È qui che il giornalismo può fare la differenza e ritrovare una missione ma perché ciò accada deve essere capace di pazienza e fatica, strumenti necessari e indispensabili per leggere la complessità. Un giornale come Repubblica deve avere ogni giorno l'ambizione di camminare accanto al suo lettore per aiutarlo a distinguere i segnali più importanti nel rumore di fondo in cui viviamo immersi e di offrire contesti che permettano di leggere con chiarezza gli eventi quotidiani. Nel caos informativo di oggi come nell'Italia sbandante di quel primo giornale di quarant'anni fa non abbiamo bisogno di aggiungere (emozioni, toni apocalittici, indignazione gratuita) ma di selezionare, di offrire a voi lettori ciò che è portatore di senso e stimola la vostra intelligenza e non la vostra pancia, perché alla fine, come diceva Montaigne, "è meglio una testa ben fatta di una testa ben piena". Così se dobbiamo indignarci per i dipendenti pubblici assenteisti, infedeli o corrotti abbiamo anche il dovere di sapere che accanto a loro ci sono migliaia di persone che tengono in piedi le Istituzioni con passione e onestà. Dobbiamo sapere che è pieno di sindaci che si alzano all'alba e provano a cambiare le cose e la sera a casa immaginano un futuro per il loro Comune. Parliamo della scuola allo sfascio ma non rendiamo sufficiente onore alla maggioranza degli insegnanti che in questi anni ha trovato il modo di tenere in vita l'istruzione italiana, con creatività, talento e coraggio. Per non cadere nella disperazione abbiamo bisogno di denuncia ma anche di soluzioni, di alternative che permettano di sperare e di continuare a vivere. Il grande giornalista americano Walter Lippmann, che negli Anni Venti analizzò le distorsioni della realtà nella comunicazione evidenziando il peso degli stereotipi, ci ha regalato la spiegazione più convincente: "Il modo in cui immaginiamo il mondo determina quello che la gente farà". Possiamo davvero pensare che basti svelare ciò che è sbagliato perché la nostra società diventi migliore? O forse possiamo sperare nel cambiamento se accanto alla denuncia proviamo a spiegare anche come si potrebbe fare diversamente? Un collega che scrive sul New York Times, David Bornstein, mi ha regalato un esempio perfetto: "Immaginate di leggere un'inchiesta su una serie di ospedali che hanno il record di parti cesarei, dove si evidenzia come ciò accada per motivi che nulla hanno a che vedere con la salute di mamma e bambino ma siano determinati dai rimborsi sanitari, dalla programmazione dei turni dei medici o dal fatto che preferiscono non lavorare il fine settimana. Alla fine dell'articolo avrete l'amaro in bocca e avrete aggiunto un tassello a quel senso di frustrazione che da anni cresce in voi. Immaginate invece che accanto a questo pezzo ce ne sia un altro che racconta anche gli ospedali che hanno il record di parti naturali, spiegando che un altro mondo è possibile. Non solo la vostra reazione sarà diversa ma avremo anche tolto un alibi a chi dice che non si può fare diversamente". Vi prometto che ci proveremo. La nostra società, senza aspettare la politica e dividendosi più sull'asse tra conservatorismo e innovazione che su quello destra-sinistra, ha aggiornato la sua agenda. Sono emersi diritti che non hanno avuto tutela storica e organizzata: le nuove libertà civili, le difese delle minoranze, dei bambini e degli anziani e i diritti dei cittadini consumatori. Su questa frontiera Repubblicadeve essere presente ogni giorno coltivando l'inclusione, il rispetto delle differenze, la convivenza, ma con razionalità e una mentalità illuminista che rifugga dalle derive oscurantiste e antiscientifiche. È necessario rimettere al centro i diritti umani, ci siamo assuefatti alla loro violazione, al massimo bofonchiamo una piccola protesta quando in Arabia Saudita un dissidente viene decapitato per avere espresso posizioni non ortodosse o in Cina un avvocato incarcerato per pochi tweet di protesta. La conseguenza peggiore della crisi è di aver fatto trionfare una ragione economica che imbavaglia Stati e opinioni pubbliche spaventate e fiaccate, anche di fronte all'uso della tortura, delle lunghe detenzioni e della pena di morte per colpire la libertà di stampa e di espressione. Ci infiammiamo se qualcuno se ne esce con una battuta infelice o poco politicamente corretta ma risultiamo distratti mentre si sgretola quel corpus di valori che ci definisce. Ieri mattina ho ricevuto il testimone da Ezio Mauro, un direttore che è stato capace di garantire a questo giornale una seconda vita dopo la stagione del suo fondatore, di dargli solidità e tenuta per vent'anni e di traghettarlo nel nuovo secolo. Ezio per me è stato esempio di dedizione, metodo e di passione per le cose fatte bene. Lasciandomi il suo posto mi ha parlato della solitudine di cui soffre un direttore nelle sere delle scelte difficili e del valore di una redazione affiatata e di una comunità di lettori fortissima. Iniziando questo viaggio ho messo in valigia ciò che penso sia più necessario a combattere la crisi di fiducia che oggi la società ha verso l'informazione: capacità di mettersi in discussione, di correggersi in modo trasparente e di coltivare dubbi, che per me sono il sale della vita.

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